Mentre si moltiplicano mozioni e proclami per istituire registri e percorsi, resta un nodo fondamentale: la medicina estetica, in Italia, non esiste come disciplina riconosciuta dallo Stato.

Roma. La giornata del 26 aprile 2023 ha visto la presentazione, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati, di una mozione parlamentare volta alla definizione del profilo del “medico estetico”. A promuoverla, l’on. Annarita Patriarca, con il sostegno di diversi gruppi e membri delle Commissioni Affari Sociali e Bilancio. L’obiettivo dichiarato: istituire percorsi formativi, registri nazionali, aggiornamenti periodici e rafforzare il ruolo delle società scientifiche del settore.

Un’iniziativa lodevole sotto il profilo della tutela del cittadino, ma che pone un interrogativo giuridico essenziale:

la medicina estetica, oggi, esiste come disciplina autonoma riconosciuta dallo Stato italiano?

La risposta, per quanto scomoda, è no.

A differenza delle 50 specializzazioni mediche riconosciute dal MIUR, la “medicina estetica” non figura in alcun elenco ufficiale, non è oggetto di corsi universitari accreditati, non ha un albo dedicato né una disciplina ordinamentale propria. Il medico estetico, nella realtà giuridica attuale, è semplicemente un laureato in medicina e chirurgia abilitato, che ha deciso — legittimamente — di esercitare attività non terapeutiche in ambito estetico. Spesso lo fa dopo aver frequentato scuole private quadriennali post-universitarie che, sebbene serie e qualificate, non rilasciano titoli accademici riconosciuti.

Allora perché istituire registri, percorsi e riconoscimenti per una figura che giuridicamente non esiste?

Perché, in mancanza di un quadro normativo chiaro, il rischio è che si voglia occupare uno spazio di mercato attraverso la creazione artificiosa di un monopolio professionale, a danno di altri operatori pienamente legittimati, come l’estetista regolamentata dalla Legge 1/1990.

Ed è qui che si apre un secondo tema: mentre la medicina estetica si affanna a ottenere riconoscimenti postumi, l’estetica professionale è già regolamentata per legge da oltre trent’anni. L’estetista qualificata ha un percorso normato, una formazione obbligatoria, un inquadramento giuridico chiaro, e soprattutto un perimetro operativo definito: opera sulla superficie del corpo umano, con finalità non terapeutiche, utilizzando apparecchiature elettromeccaniche e prodotti cosmetici conformi alla normativa europea.

Nonostante questo, proprio il Ministero della Salute — che non ha competenza sull’estetica, essendo un’attività non sanitaria — continua a interferire sul campo d’azione delle estetiste, spesso invocando il rischio sanitario per giustificare limiti e divieti mai espressamente previsti dalla legge. Un atteggiamento, questo, che non trova riscontro nel diritto, ma piuttosto in una cultura protezionista ormai superata.

Nel frattempo, un’associazione come Confestetica, che rappresenta migliaia di imprese del settore, lavora per istituire un percorso universitario triennale in Estetica Avanzata. L’obiettivo? Superare la barriera del sospetto, rafforzare la formazione tecnico-scientifica e rimettere l’estetica al centro di una visione moderna, europea, professionale. Senza voler invadere il campo medico, ma rivendicando il diritto a esistere — e operare — secondo quanto stabilito dalla legge, non dall’opinione di un Ministero o di una società scientifica privata.

Perché, in uno Stato di diritto, non è il consenso di categoria a fondare una professione. È la legge.